Flatlandia: Racconto fantastico a più dimensioni è un libro classico del 1884, scritto da Edwin Abbott Abbott, nato a Londra il 20 dicembre 1838, con Sole in Sagittario, Luna in Acquario (9.11).
L’opera narra la vita di un abitante di un ipotetico universo bidimensionale che entra in contatto con l’abitante di un universo tridimensionale.
Chiamo il nostro mondo Flatlandia, non perché sia così che lo chiamiamo noi, ma per renderne più chiara la natura a voi, o Lettori beati, che avete la fortuna di abitare nello Spazio. Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre Figure geometriche, invece di restar ferme al lor posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre, insomma – consistenti, però, e dai contorni luminosi. Così facendo avrete un’idea abbastanza corretta del mio paese e dei miei compatrioti. Ahimè, ancora qualche anno fa avrei detto: «del mio universo», ma ora la mia mente si è aperta a una più alta visione delle cose.
Flatlandia è una parabola della nostra realtà separata.
Noi viviamo in una realtà di terza dimensione.
Da questa prospettiva possiamo comprendere la seconda dimensione, ma non siamo in grado di capire la quarta dimensione.
L’atteggiamento umano verso la quarta dimensione è lo stesso che gli abitanti di Flatlandia, di seconda dimensione, hanno verso la nostra realtà di terza dimensione.
Inoltre, in Flatlandia, parlare o promuovere la conoscenza di dimensioni più ampie della seconda dimensione è condannato, proibito o ridicolizzato, così come lo è per noi esseri umani riguardo altre dimensioni superiori.
Osserva quella miserabile creatura. Quel Punto è un Essere come noi, ma confinato nel baratro adimensionale. Egli stesso è tutto il suo Mondo, tutto il suo Universo; egli non può concepire altri fuor di se stesso: egli non conosce lunghezza, né larghezza, né altezza, poiché non ne ha esperienza; non ha cognizione nemmeno del numero Due; né ha un’idea della pluralità, poiché egli è in se stesso il suo Uno e il suo Tutto, essendo in realtà Niente. Eppure nota la sua soddisfazione totale, e traine questa lezione: che l’essere soddisfatti di sé significa essere vili e ignoranti, e che è meglio aspirare a qualcosa che essere ciecamente, e impotentemente, felici.
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Franco Santoro